da SIC DIXIT Gen-Feb-Mar 2024
Maurizio Fiume: vita è cinema
A cura di Luciana Pennino, componente del Comitato Editoriale di PMI-SIC
Dallo speech al DIXIT il passo è breve… Ed ecco che Maurizio Fiume, keynote speaker all’Assemblea dei soci 2024, si racconta con trasparenza e passione, e io lo ringrazio!
La passione è quella che lo fa vivere di cinema per vivere meglio…
Maurizio, puoi datare il momento in cui hai capito che tra te e il cinema la storia era iniziata e che sarebbe stata molto lunga e intensa?
Ho avuto un mentore, mio fratello o meglio il mio fratellastro, Franco, di 18 anni maggiore. Era stato proiezionista in un cinema parrocchiale a Barra, un quartiere popolare alla periferia di Napoli. Ora è un quartiere un po’ degradato, ma negli anni ‘60 era solo un quartiere povero. Durante la mia infanzia non andavo al cinema: eravamo sei figli, mio padre era insegnante elementare e mia madre era casalinga, e non ce lo si poteva permettere. Io vedevo i film solo in televisione, il lunedì sul Programma Nazionale (ora RAI 1) e il mercoledì sul Secondo Programma (ora RAI 2). Poi c’era il sabato alle 13:30 la trasmissione Oggi le comiche, dove ho imparato a conoscere tutto il cinema comico muto, da Chaplin a Buster Keaton, ma anche Stanlio e Ollio. Infine una volta all’anno, a giugno, ogni mattina erano trasmessi i film in occasione della Fiera della Casa, che si svolgeva a Napoli. Di ogni film mio fratello sapeva dirmi tutto: attori, registi, sceneggiatori, scrittori (come Hemingway da cui erano tratti i film), produttori, generi. In quel periodo poi c’erano i cicli di film su attori e autori. E comparivano critici come Claudio G. Fava, Gianluigi Rondi, che presentavano il film prima della visione. Così mi sono formato la mia cultura cinematografica. La prima volta che sono andato al cinema avevo, credo, 6 anni. Venne a casa a trovarci mio zio Fernando. Lo sentii parlare con Franco di andare al cinema. Allora chiesi a mia madre cosa fosse il cinema. Fu lei a convincerli a portarmi con loro. Andammo al cinema Roma di Portici, dove abitavo (esiste ancora) e vedemmo un western a colori. Rimasi folgorato. Ogni anno alla Befana chiedevo attrezzature per fare film: il proiettore, la cinepresa, il registratore per il suono. E cominciai a realizzare i primi filmini. Ma già pensavo a creare una grande impresa di produzione!
Alle scuole medie avevo un amico, Gianni, che mi seguiva nelle mie follie. Poteva avere biglietti gratuiti per i cinema di Portici: io finanziavo la mancia alla maschera (risparmiando i soldi dell’autobus per andare a scuola, facendomi a piedi i tre chilometri da casa a scuola) e così cominciai a vedere decine di film. Ricordo che li vedevo più volte per smontarli e capire come funzionassero. Mi resi subito conto che avere una cinepresa non bastava per fare un film, bisognava prima scrivere il soggetto e progettarlo in tutti i particolari. La prima sceneggiatura di un corto l’ho scritta a 12 anni. Speravo di realizzarla con Gianni, ma lui ogni estate se ne andava in vacanza e io restavo a casa a sognare di fare un giorno i miei film.
Beh, questa tua prima risposta è anche un tenero amarcord per molti e molte di noi…
Tu ti ami definire cineasta. Perché?
Il contributo più importante al rinnovamento del cinema è stato dato dal movimento della Nouvelle Vague negli anni sessanta. Il cinema come lo conosciamo oggi non esisterebbe se non ci fossero stati François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol, Éric Rohmer. E delle tante intuizioni eccellenti di quel movimento mi è sempre piaciuto lo spirito di gruppo dei primi tempi, in cui tutti facevano tutto pur di realiz-zare le loro opere, scambiandosi i ruoli. Per cui, in un film Truffaut faceva l’operatore di Godard e in un altro Godard faceva lo sceno-grafo o il fonico. Credo che questo sia essere un cineasta: non importa il ruolo, l’importante è realizzare le opere. Oggi con le nuove tecnologie è possibile facilmente svolgere qualunque ruolo e, poiché il cinema si impara facendolo, questo aiuta i giovani a farsi una grande esperienza in breve tempo. Lo vedo con mio figlio Ariele, che vorrebbe fare l’attore ma aiuta i suoi amici registi ricoprendo qualunque ruolo pur di portare a casa il lavoro.
Complimenti ad Ariele… Buon sangue non mente!
Tu sei regista, sceneggiatore e produttore (di quanti film?) nell’ambito del cinema indipendente.
Ma cosa si intende per cinema indipendente e come possono essere definite queste tre professioni e quale senti maggiormente sulla pelle?
Io volevo fare lo sceneggiatore, ogni tanto il regista. Ho capito presto che in Italia non era possibile: se vuoi far vivere le tue storie, i tuoi personaggi sullo schermo, devi fare sia il regista che il produttore, altrimenti tutti intervengono su quello che hai scritto e ne fanno il loro film.
Durante il liceo e l’inizio dell’università persi un po’ di vista il cinema, non avevo compagni di avventura con cui fare gruppo anche solo per andare al cinema. Poi ci fu il caso di Io sono un autarchico di Nanni Moretti, ovvero un lungometraggio in super 8, e pensai che forse anch’io potevo fare il mio primo lungometraggio in super 8. Lavoravo a Napoli presso uno studio legale e qualcosa avevo cominciato a guadagnare. Comprai la migliore cinepresa super 8 e il miglior proiettore, oltre ad altre piccole attrezzature, e fui pronto per poter girare. Poi un giorno del 1984 andai a vedere Bianca, sempre di Moretti, e capii che si potevano fare grandi film con poco, ma con tante idee. Fu di lì a poco che conobbi il Centro Culturale Giovanile di via Caldieri al Vomero, a Napoli, dove guidati da un grande formatore, Pasquale Renza, realizzammo corti, rassegne, corsi e soprattutto conobbi i miei compagni di avventura: Antonio Cecchi, Roberto Gambacorta, Laura Sabatino, Stefano Incerti e il critico cinematografico (ora produttore) Dario Formisano. Nel 1990, con loro fondai la Riverfilm, con la quale iniziai proprio in stile Nouvelle Vague, a scrivere, produrre, dirigere corti e lungometraggi.
In quel periodo facevo la spola con Roma per seguire un corso di sceneggiatura tenuto dal premio Oscar Ugo Pirro e da Lucio Battistrada (famoso per aver scritto la serie La piovra). Lo stesso corso presso cui si era formato lo sceneggiatore di Bianca. Nel 1987 vinsi il Premio Cinema Democratico per il miglior soggetto con la storia sul giornalista ucciso dalla camorra, Giancarlo Siani, che avevo conosciuto direttamente e sul quale avevo una storia personale da raccontare.
Dopo il Premio, mi chiamò a Ercolano – dove la mia famiglia si era trasferita – il produttore Luigi De Laurentiis, che era uno dei componenti della giuria, dicendomi che voleva realizzare il film. Colsi l’occasione e mi trasferii a Roma.
Il film in realtà sfumò, ma entrai nel mondo del cinema dalla porta principale e dopo un anno di tentativi iniziai a lavorarci. Facevo il tutto-fare, ma mi divertivo: mi interessava capire come funzionava la macchina cinema dei professionisti.
Ho sempre faticato ad arrivare a fine mese – e anche oggi non sempre è facile. Alcuni mesi sono stati terribili, ma non mi sono mai pentito della mia scelta.
Il cinema è una passione e se ti avvolge non ne puoi fare più a meno. Truffaut diceva che gli amanti del cinema sono persone malate e che “fare un film significa migliorare la vita”. Sono totalmente d’accordo col maestro.
Non so a quanti film ho dato un mio contributo diretto o indiretto, credo centinaia. Nella maggior parte dei film non sono accreditato e molti sono progetti che non sono diventati film, rimanendo sulla carta.
Non parliamo di quelli dove non sono mai stato pagato…
Il cinema indipendente comporta fare film in completa autonomia, senza imposizioni sullo script, sulla scelta degli attori né dei collaboratori. In Italia è la cosa più difficile: quelli che mettono anche pochi soldi pretendono di intervenire su tutto. Per questo io da decenni non li propongo neppure i miei film ai finanziatori.
Significa vendersi, e io voglio fare solo film universali.
Poi se vogliamo parlare dal punto di vista della realizzazione tecnica, un film indipendente si dovrebbe fare seguendo il manifesto della Nouvelle Vogue (senza fondamentalismi), ovvero eliminando ogni sorta di artificio: niente proiettori, niente costose attrezzature, niente complesse scenografie; i film devono essere girati alla luce naturale del giorno, per strada o negli appartamenti, con attori poco noti, se non addirittura amici del regista, e le riprese dovrebbero essere effettuate con una camera a mano, accompagnata da una troupe tecnica essenziale costituita per lo più da conoscenti.
Con il progresso tecnologico odierno tutto questo è davvero alla portata di tutti; pochi hanno però il coraggio di farlo. Mancano le idee e gli sceneggiatori. Mancano i registi, quelli veri. Mancano i produttori. Presto mancheranno attori (veri) e tecnici (bravi), perché sono tutti in età di pensione e nessuno ha pensato al ricambio generazionale.
Sarà allora che si capirà che solo il cinema indipendente potrà salvare il cinema italiano.
E il tuo progetto di Ricerca e Sviluppo Efilm System che cos’è? Com’è nata l’idea?
È un sistema che permetterà alle nuove generazioni di fare film in breve tempo e a costi ridotti all’essenziale. In questo modo si produrranno più film. Il cinema si impara facendolo, come ho già detto, e bisogna dare ai giovani la possibilità di fare, sbagliare, rifare.
È strutturato in 3 step:
• L’Efilm Studio è un SaaS, ossia un software in cloud, che aiuta a gestire e pianificare tutto il processo di progettazione, produzione, diffusione di un film con l’I.A.
• L’Efilm Stage è un set altamente tecno-logico connesso con l’Efilm Studio e per-metterà di realizzare film in tempo reale, ovvero mentre si effettuano le riprese si realizza il film come nella diretta di un evento sportivo ma con il linguaggio cinematografico.
• L’Efilm Room è la cabina di regia connessa con l’Efilm Studio e l’Efilm Stage dove si postproduce in tempo reale il film e lo si trasmette in diretta streaming.
In pratica, con Efilm System si potranno realizzare film in diretta.
L’idea mi è venuta durante la lavorazione di due progetti, Chiove e Totò si rigira: due progetti realizzati in tempo reale e trasmessi in diretta. Chiove via satellite, Totò si rigira in streaming. Per questi due progetti il workflow era tutto tradizionale e manuale (carta e penna!).
Io l’ho trasformato in un sistema altamente tecnologico in modo da catturare le risorse dei progetti innovativi.
Il progetto ha ottenuto numerosi riconoscimenti: ha vinto il Primo Premio Nuovi Linguaggi e Proposte Innovative della Film Commission Regione Campania, si è qualificato su 5.262 imprese per la finale nazionale del Premio Cambiamenti CNA 2022, è stato sostenuto dall’incubatore certificato UNINA/CAMPANIA NEWSTEEL, da Camera di Commercio di Napoli/Voucher digitali I4.0 e dal MISE/Voucher Innovation Manager. Il sito BePlan ha inserito l’Efilm System tra i case study di successo.
Attualmente l’Efilm System è allo step Efilm Studio e nei prossimi mesi mi dedicherò agli step successivi, che richiedono investimenti importanti.
La realizzazione di un film è paragonabile a quella di un qualsiasi altro progetto? Ci parli del Project Manager in ambito cinematografico?
La realizzazione e la diffusione di un film è suddivisa in cinque fasi ed è simile al workflow di altri prodotti industriale o di artigianato evoluto. Tuttavia ci sono due caratteristiche che distinguono il processo di pro-duzione di un film dagli altri prodotti.
La prima: il film è un’opera creativa e quindi l’intero processo produttivo si deve confrontare costantemente con l’irrazionale.
La seconda: ogni film è un prototipo, che deve essere perfetto e funzionante come un’auto da mettere in una pista di Formula Uno e che deve vincere il campionato.
Nel cinema la figura del PM è assolta dal produttore. Negli ultimi anni è nata la figura dello showrunner: un creativo con competenze da produttore esecutivo, che conosce tutte le fasi di lavorazione e che, per questo, è in grado di orientare la progettazione, rendendo fattibili i progetti dei creativi. Ed è un po’ il lavoro che ho svolto io in 30 anni nella progettazione dei film indipendenti.
Quando hai compreso che l’I.A. avrebbe cambiato anche il modo di fare cinema, qual è stata la tua reazione?
Capisci l’I.A. quando la usi. Nella fase della progettazione dell’Efilm Studio ho subito capito che con gli algoritmi e il machine learning si poteva aumentare in maniera esponenziale il grado di accuratezza predittiva di un programma e portare un semplice gestionale a diventare un decision maker. Oggi l’I.A. generativa è diventata indispensabile: non credo che la si possa più ignorare o se ne possa fare a meno.
Essenzialmente, i suoi pro e contro?
L’I.A. generativa, nata appena un anno fa, è senza dubbio una rivoluzione. Siamo ancora alla scuola media di tale rivoluzione, ma quando, credo nel giro di due anni, avremo una I.A. generativa di livello universitario sarà inevitabile usarla.
È ancora acerba, ora, seppure risolve molti problemi a una velocità improponibile per un essere umano, sempre però con un contributo umano importante per il suo utilizzo più efficace. Il problema è la sua curva di apprendimento ancora elevata e, per questo, non alla portata di tutti: questo è il suo limite, oggi.
E in quali aspetti del cinema, a tuo parere, l’I.A. non potrà mai avere senso?
L’I.A. generativa sarà di grande aiuto come copilota dell’uomo in tutti i settori del lavoro, per la rapidità e la quantità di cose che può proporre. Ma non potrà mai essere sostitutiva dell’uomo. Laddove non potrà essere molto utile è nell’ideazione.
Secondo John Locke, le idee complesse so-no una combinazione di idee semplici. E i creativi lo sanno bene. L’I.A. potrà certamente proporre rapidamente numerose combinazioni, tutte però meccaniche. Perfette, ma algide. Solo l’uomo può aggiungere alle tante combinazioni di idee la propria anima, donare la parte irrazionale della mente allineata all’infinito.
Per dirla con Castaneda, è la nostra connessione con il lato attivo dell’infinito che ci rende umani. O, se preferisci, con Fellini, che diceva “Non si sa nulla. Tutto si immagina”, riassunta nella formula magica in 8 ½: Asa Nisi Masa.
Per questo le idee che potrà generare l’I.A. non saranno mai uniche come quelle che potrà generare un essere umano. E le sceneggiature e i film sono un grande dizionario di idee: senza l’essere umano non saranno mai unici. Sicuramente ci saranno film di grande successo, i blockbuster, costruiti a tavolino soprattutto grazie all’I.A., ma saranno sempre meccanici e algidi.
I film che ci emozioneranno e faranno parte della nostra esperienza di vita, solo l’uomo potrà realizzarli.